- danila serafini

La statua, come diceva l’Alberti, non è una rappresentazione, ma un altro oggetto, un doppio, in cui si infonde un’ altra vita; l’attività artistica di Gregor Prugger è un continuo fare vite e forme nuove,  per le quali i temi rincorsi sono l’uomo e la natura. 

Prugger anima il legno e lo redime dalle solite invenzioni, per risolverlo in plastiche – definite nel figurativo o ridotte all’informale – che corrispondono alle sue ragioni emotive, o per dirla con le parole dell’artista stesso, “al suo sentire di pancia”.

Ecco perché la sua maniera non sfiora il concettuale, ma resta avvinta alle ragioni proprie dell’espressione iconica. L’inventio di Prugger infatti, è fortemente radicato nella cultura da cui proviene e in cui si è formato, tra la bottega paterna, l’Accademia e lo studio dell’alta tradizione artistica gardenese.

 La mostra, intitolata “’80-’90-’00-’10 “ presenta quasi quattro decenni di lavoro, in cui la scultura di Gregor Prugger segue un’evoluzione sia creativa che poetica. Il percorso potrebbe essere letto con correttezza e senso, sia cronologicamente che a ritroso, ma per convenzione, partiremo dal passato.

1980

Ogni sala espositiva accoglie una decade, e nella prima sono illustrati gli anni tra il 1980 e il ’90. Qui un gruppo di statue si presenta come una sola figura, perché ad esse soggiace un solo concetto, quello del sentimento, da intendersi come “moto dell’anima” che emerge dalle viscere, pervade la carne e modella i lineamenti del volto.

Il loro essere accostate favorisce la comprensione, indicandole come parti complementari di un complesso scultoreo unico, per forma e contenuto attinenti. Le lega la grandezza naturale e la materia, che è per tutte il legno, di cirmolo o di tiglio, di castagno o di noce e sempre lasciato al naturale, e le distingue l’involucro esteriore, che comprende deformazioni, tagli, sottrazioni di parti anatomiche o aggiunte, come la pasta vitrea per gli occhi o un panno che avvolge o una corda che stringe.

Raccolte in un manipolo di pose differenti, le figure sono sostenute da espressioni dissimili che rivelano emozioni di timore e stupore, di follia e d’angoscia. Prugger codifica questi stati d’animo a volte nel rispetto delle convenzioni, altre volte invece, proponendo una versione personale.

L’artista mette in scena un dramma, quello degli emigranti e dei profughi che, spinti dalla disperazione e dalla miseria,che l’insensatezza delle guerra provoca, si spingono altrove, in terre in cui spesso devono subire un estraniamento mortificante, ma che a dispetto di tutto,  mantengono intatto il potente desiderio di vivere.

1990

Hanno la sembianza di glifi di una scrittura misteriosa i particolari di vesti e panneggi vari estrapolati da contesti scultorei medioevali che l’artista ripropone impaginandoli alla sua maniera e chiamandoli “Gocce di un tempo passato”. E`una “sineddoche” figurata, perché le “gocce” sono le diverse “parti” delle sculture gotiche, “il tutto” a cui rimandano e che poi accostate arbitrariamente, evolvono in un’accezione moderna e originale.

La bruciatura sul legno ne sigilla l’aspetto pittorico e rende la nostra percezione ambigua e incerta, quando non sappiamo se l’opera è svolta nel legno o nel metallo; più sicuro invece, è il riconoscimento delle venature di tiglio e di abete sotto una velatura grigia di matita con cui l’artista “colora” opere come “Schleife”, “Pensier ntort” o “Die Wende”.

Prugger si diletta con un’altra figura retorica, questa volta un ossimoro, a cui dà la sembianza di una sacca di cornamusa o di una budella rigonfia. Titolo, “Pieno di vuoto”. L’attenzione è ora riposta sulla purezza della forma, sulle sue variabili e sulle sue mutevoli suggestioni; così, in assenza di immagini riconoscibili, le considerazioni  si moltiplicano per quanti sono gli occhi che si apprestano a scrutarla. Alla leggera patina rosata, ottenuta da un impasto di colla di pesce e di polvere dolomitica biancastra delle pietre del Monte Seceda e che in Val Gardena si chiama “grunt”, è dato il compito di ammorbidire la luce sui pieni e di attenuare le ombre nei vuoti.

Correda la sala una sequenza di fotografie in cui i capolavori michelangioleschi scompaiono nel momento in cui il “gesto estetico” di Prugger, ne copre, ancora usando la matita, porzioni importanti dell’immagine; il risultato è una figurazione astratta che nulla condivide con l’opera del Buonarroti, e fuori dalla sua influenza artistica si affranca libera e autonoma nell’ideazione.

2000

Sono gli anni in cui la Natura è come fermata in un’istantanea: in scatole verticali che si aprono, incide le linee irregolari che le rocce tracciano sulle montagne o plasma incavi delicati e flessuosi in legni stesi a terra per riproporre il fluire docile dell’acqua. Accosta due realtà opposte: la durevolezza dei monti e la fugacità nel continuo divenire dei fiumi.

Riflette su queste due dimensioni che appartengono alla vita della natura come a quella umana, cercando di accettare la finitezza come condizione necessaria per l’eternità.

Maestro nel lavorare il legno, ne conosce la potenzialità e altresì la vulnerabilità e in questa dialettica irrisolta, vede specchiato se stesso.

2010

Nell’ultima sala sono raccolte opere ridotte all’astratto o definite in pure geometrie, sostanziate dalla consistenza del colore, scelto tra le forti tinte del rosso, del nero e del grigio.

Di nuovo tutto ha inizio dall’osservazione della natura e l’artista procede prima fotografando un arbusto o un cespuglio, poi decodifica l’immagine e la manipola con i mezzi informatici, per rifarla tridimensionale su di uno strato di truciolato cotto, l’MDF dove alle venature scomparse si sostituisce un ammasso ruvido, intricato di segni che affiorano dalla superficie e diventano la connotazione del valore tattile e visivo dell’opera.

Oppure, rifacendosi allo “stiacciato” donatelliano, segna il piano di sottilissimi rilievi articolati in senso geometrico e con ordini di volumi differenti. Sembrano strade che si intersecano o spazi che si aprono, attraverso i quali lo scultore cerca la sua “via d’uscita”, come recita il titolo stesso di questa serie. Li colora di toni diversi di grigio o di rosso, stesi senza collanti aggiunti ma usando soltanto il pigmento per esaltare tutta la profondità e la vivezza della cromia e conferire un effetto di fluidità atmosferica e di immediatezza percettiva.

La tensione di queste forme interamente bevute dal legno, si risolve nel rapporto dialettico delle arti, laddove la scultura non ha più la superiorità sulla pittura, perché l’una è complementare all’altra. Prugger giunge, attraverso la continuità dei due ambiti disciplinari, alla loro indissolubile unità, come già era stato nel Barocco e promuove una pittura fatta con i mezzi della scultura e viceversa.

Alla pulita linearità dei bassorilievi si affiancano le contorte sinuosità dei rami del nocciolo giapponese: qui Prugger conclude le punte spezzate con elementi immaginari o realistici affinché  l’oggetto non sia interrotto, ma possieda un valore di finitezza, o per meglio dire, si completi nelle mani dell’artista.

La composizione, in massima parte costituita dalle volute capricciose e serpeggianti dei rami si distende nelle piccole sculture aggiunte che risultano legate più da simiglianza di forme che da rimandi di significati.

Dopo aver narrato di cose manipolate nel legno con prassi inconsuete e create nelle modalità plastiche del tuttotondo o del bassorilievo, il nostro racconto si arresta, ma non a lungo, allorquando, come scriveva Leonardo, “l’ingegno dell’artista si desta a nuove invenzioni”.                                             

 

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